
Sono un collezionista. Non è un passatempo. Ricerche, tenacia, sacrificio. E poi, bisogna saper scegliere quale pezzo tenere, quale cercare, quale perdere. M’impegna tutto il giorno. A volte anche la notte. Ho dovuto abbandonare la mia prima attività. Possedevo una drogheria, ereditata da mio padre. Certo, era una discreta rendita ma dovevo scegliere ed ho scelto. Bisogna scegliere quando si punta in alto. E’ facile dire “voglio il massimo”. Il massimo costa. Chi vi dice che il massimo sia una drogheria. Gli altri non la pensavano come me. Hanno creduto che fossi matto. Bisogna sempre perdere qualcosa quando si sceglie. Proprio ieri sono venuto in possesso di un pezzo pregiato. Mio padre avrebbe avuto piacere a vedermi felice ma il concetto di felicità di mio padre era estremamente soggettivo. Io sono felice ma non come mio padre avrebbe voluto che fossi. Io dico che la felicità non è di serie A o di serie B, non è quantizzabile come il sale o il caffè che mio padre vendeva al negozio… mi dia un etto di felicità! Io sono felice da quando ho cominciato a collezionare. Tutto ha un inizio ed una fine… come le lettere che compongono una parola. L’altro giorno ho scambiato “fragore” ed “illusione” con “dirompente” e “anchilosato”. Non credete che siano due parole bellissime? Per me lo sono. Colleziono parole, le parole di cui gli altri abusano o non usano più. Le parole inutili perché svuotate o perché nate già vuote. Io le colleziono e talvolta provo a dar loro un po’ di vitalità. Prendo ad esempio la parola “concreto” e la unisco alla parola “amore”. Loro sono due parole violentate che io metto assieme come semini per ritrovare terreno fertile. Il mio compito è principalmente di collezionare… non sempre è possibile dar loro nuova vita. Spesso sono parole randagie, libere. Faccio come l’assaggiatore di vini: tengo le parole in cantina, al fresco, ad invecchiare. Proprio come il vino buono. Poi, se è il caso… qualche occasione che vale… come l’altro ieri, ad esempio. Guardando in faccia il mio padrone di casa – un essere tremendamente mellifluo, ho detto: Devo essere sincero con lei, mi fa schifo. “Sincero”: morbidezza e rigidità del suono. E dire che tale parola era proprio caduta in disgrazia. Poi ci sono parole che non vorrei stappare mai. Non che non mi piacciano, tutt’altro. E che stappandole mi parrebbe deturparle. Come la parola “carezza”. Che spreco che ne hanno fatto gli altri. In casi come questo, faccio come per i tappi del vino buono: annuso e rimetto tutto a posto. Lo so cosa pensate: ma con le parole non ci campi. Ho messo da parte un po’ del ricavato della vendita della drogheria. E poi non faccio grandi spese. Quel tanto che basta. Certo, finirà prima o poi. Poco male, vuol dire che nel frattempo mi sarò impegnato a stappare la parola “fine”.
1 commento:
Uffa, non so cosa scrivere, perchè uscirei le solite parole e frasi abusate! Però a volte è inevitabile usarle!
Comunque questo monologo mi è piaciuto molto anche perchè mi ha ricordato la faccenda degli insulti: quando sei seccato, li urli per sfogarti.
E passi sempre a insulti più grossi, finchè non ti accorgi che stanno perdendo il loro senso e ogni collegamento con la realtà dei fatti. E allora resti li, pieno di odio, perchè quella persona è stata così meritevole di odio che vorresti strozzarla, ma sei troppo buono per farlo.
Beh...A volte anche concretizzare certe parole grosse tirando una consistente pedata non farebbe tanto male!!
Posta un commento